lunedì 3 marzo 2014

AHO. GIANCASSIO


 377.
          GIANCASSIO 


Scelsi l'arma,
e sparai a tutti.
Ai secondi, al mio rivale
ed alla mia donna che piangeva.

Non uccisi nessuno,
ma venni arrestato,
fui condannato a morte
e poi, graziato.

Ebbi però l'obbligo
di lasciare il mio paese.
Fuggii come una zebra un leone
mi ritrovai sperduto.

Sperduto fra le selve,
disperato ma libero,
i briganti stessi mi conoscevano,
mi lasciavano, impauriti, andar via...

Come arrivai a St. Pierre,
crollai sul pagliericcio,
d'un infimo castello,
masnadieri e biscazzieri.

Che sporca faccia aveva,
il mio angelo custode,
era un bel farabutto
il suo Dio: e chi ero io?

Il mulino gira le pale,
era un vento fresco e leggiero,
osservavo i contadini chinati.
lavoravano piano, in silenzio.

Decisi di lavorare un pò,
un immenso campo verde e giallo:
raccoglievo pannocchie di granturco
le gettavo in ampie ceste.

Mi piaceva il lavoro,
fatto a modo mio,
restai nove giorni,
ma la mia stella ripartì,
ed io dietro ad essa.

Stella lassù nel cielo,
cammini lenta senza posa,
mandi in terra odor di rosa
il mio cuore è senza velo.

Tornai in patria, un dì di giugno,
dormivo fra le terre di Viterbo,
con la mia donna semplice e gaia,
come un zinghero, sotto la luna amica.

Raggi di luna come gocciole zincate,
l'odore dell'idrossido d'ammonio,
il bel turchino del solfato di rame,
le bizzarre disposizioni della limatura di ferro.

L'asino si è azzoppato,
la cavalla ha abortito,
l'albero si è sfrondato,
la gallina si è spiumata.

Io che sono una zitella,
getto alle ortiche la manovella,
io che ero un vecchio cuoco,
metto la salsiccia sopra il suo gran fuoco.

         ( Camillo Catellani; Gennaio 2001 )

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